STILI E TENDENZE

Maria-Teresa Ortoleva: vi spiego l'arte di noi Millennial

LEGGI IN 4'
Classe 1990, Maria-Teresa Ortoleva fa parte di una nuova generazione di artisti emergenti che cercano di indagare la realtà con occhi differenti, alla luce di un modo definitivamente nuovo di vivere e utilizzando risorse e mezzi espressivi negati alle generazioni precedenti. Per Racconti di Donne cerca di spiegare il sottile filo rosso che collega i giovani artisti Millennial.

Dopo gli studi all'Accademia di Brera, Maria-Teresa Ortoleva si è diplomata con un master alla Slade school of fine art di Londra, città dove vive e lavora. A Milano, ha esposto al Padiglione Vaticano di Expo 2015, a Palazzo Reale tra i finalisti del premio Cairo 2017 e con una personale alla Fondazione Pomodoro di Milano, dove nel 2016 ha proposto l'installazione ambientale Triumphus visionis.

La sua ultima installazione ambientale - Rêverie - è in mostra alla Galleria Luca Tommasi di Milano (Via Cola Montano 40) fino al 21 luglio 2018.

Pensi che calcare le tue orme potrebbe essere una scelta vincente? Lo consiglieresti a chi desidera intraprendere un percorso artistico?

Lo consiglierei assolutamente anche se forse non è stato un percorso canonico.
Ho iniziato a capire cosa significava fare arte grazie a dei professori, quando ero ancora alle scuole medie. Poi ho fatto il Liceo Classico con il desiderio di formarmi culturalmente in maniera più ampia: questa scelta mi ha dato un bagaglio prezioso di organizzazione del pensiero e di capacità di lettura della realtà. In seguito, ho studiato a Brera, che mi ha dato la sua impronta peculiare. A Londra, per il master, c'erano studenti provenienti da ogni dove; è una dinamica che aiuta a rendersi conto della propria identità culturale italiana, che laggiù viene molto apprezzata. Il fatto che la nostra cultura sia riconosciuta come valore ovunque, è qualcosa da riportare qui, nel lavoro in Italia.  Essere lontana mi ha portato a usare gli elementi identitari in modo più libero; è un’attitudine che si rispecchia nell'utilizzo dei materiali e nella libertà di attingere a qualsiasi fonte. Alla Slade non c’era nulla di vietato, purché fosse sostenuto in modo valido e serio. Dall'Accademia di Brera, in compenso, ho portato via uno studio dell’anatomia umana e delle tecniche pittoriche che gli studenti stranieri vengono ad imparare qui, perché è un patrimonio solo nostro. Questo scambio offre la possibilità di riconquistare uno sguardo fresco sulla propria tradizione e, quindi, la possibilità di interpretarla in modo nuovo.

Di cosa parli nella tua ultima opera, Rêverie?

Con Rêverie ho fatto il tentativo di catalogare qualcosa che sfugge sempre, in tutta la sua potenza. Un elettroencefalogramma è un pensiero che diventa visibile, meccanicamente, con forme differenti; le linee del tracciato delineano un'esperienza che è intrinsecamente inafferrabile. Rêverie è un’installazione inedita che occupa per intero lo spazio con strutture di plexiglas colorato dalla forma ondulata, che si moltiplicano e si affastellano. Il colore, la luce e la trasparenza giocano un ruolo fondamentale nell'esperienza, perché il primo approccio con l'installazione è di tipo fisico e percettivo, ma le forme astratte nascondono riferimenti scientifici e misurabili. La sagomatura riprende i tracciati cerebrali di diversi individui registrati durante il sonno, nella fase del sogno, oppure da svegli, mentre il soggetto è impegnato nell'attività immaginativa. L'installazione è il risultato di un work in progress in cui indago il valore cognitivo dell'immaginazione e le dinamiche dell'immaginario collettivo, insieme alle strutture del linguaggio verbale, visivo, fisico e digitale.

Le tue opere hanno un comune denominatore?

C'è un percorso di ricerca che sottende tutto il lavoro che ho compiuto. Rifletto sui procedimenti dell'immaginazione – che non è intesa come una fuga dalla realtà ma come processo conoscitivo -  e sul modo in cui informano lo sguardo di chi vede. Avevo già iniziato questo lavoro durante gli studi in Italia e ho proseguito con questo argomento nella ricerca fatta durante il master a Londra, anche se i casi di studio sono stati diversi. L’immaginazione è una componente intima dell'essere umano: mi chiedo se sia possibile dare una forma scientifica e allo stesso tempo se sia possibile dare forma artistica a ciò che la scienza è capace di misurare con un tracciato cerebrale. L ‘incrocio tra volontà di catalogazione e irriducibilità dell'umano, l’antitesi tra razionalità e automatismo e tra ordine e caos, sono per me nodi concettuali fondamentali.

Puoi scorgere dei tratti comuni – generazionali – nell’arte dei Millennial come te?

Usiamo qualsiasi risorsa come opportunità. Siamo forti in alcune dinamiche comunicative e con la capacità di auto-organizzarci. Non abbiamo problemi a creare mostre pop-up in spazi alternativi per comunicare la nostra ricerca. Abbiamo facilmente accesso a luoghi fisici o virtuali, creati anche dai social media. Ad esempio, a Londra, Instagram può essere luogo per l’auto-pubblicazione, senza per questo sembrare meno credibili. Per i Millennial, la familiarità col web diventa anche un argomento da interrogare, riflettendo sul rapporto con la macchina – e a volte negandolo – su come siamo cambiati, sulla memoria e l'immaginario. Il materiale d’archivio a nostra disposizione per lavorare si espande a dismisura, così come gli strumenti: la partenza di uno studio non deve essere per forza autorevole ma provenire da qualsiasi contributor. Spesso si parte da sé stessi per delineare un collettivo e poi gli altri possono connettersi, avere accesso all’opera e intessere un discorso con l’artista. Viviamo una grandissima fluidità-  sia nel modo di vivere, sia in quello di spostarsi - e questo si rispecchia nei linguaggi che utilizziamo.

Nella tua esperienza, quali sono i pro e i contro delle città in cui hai studiato, vissuto e lavorato?

Come ho detto, l'esperienza all'estero è fondamentale per spalancare la propria visione ma io desideravo mantenere un legame forte con il mio paese. A Londra, ho trovato molta competizione ma è possibile giocarsela: l’iniziativa è premiata e valorizzata e permette a chi inizia di fare esperienze che avvicinano al mondo professionale. Ho imparato a dialogare con una varietà di contesti diversi e a muovermi passo a passo, avendo lo sprone di fare le cose più in grande, senza timore, in maniera più approfondita. Inoltre, c’è un doppio legame: da un lato è più facile lavorare con altri artisti e, dall’altro, c’è un rapporto con la committenza e le istituzioni che è professionalizzante, perché i progetti sono legati alla realtà. Dal punto di vista espositivo, invece, le soddisfazioni più grosse le ho avute a Milano.

Ti potrebbe interessare anche:

Iscriviti alla newsletter di donnad

Leggi tanti nuovi contenuti e scopri in anteprima le iniziative riservate alla community.