La fotografa ritrattista torinese Daniela Foresto è stata una delle scoperte del MIA photo fair 2016. Nella sua esposizione campeggiavano i magnifici scatti del progetto dedicato a Tamara De Lempicka, l’artista che con i suoi ritratti femminili ha fissato un’epoca e i cui quadri sono considerati uno dei documenti più fedeli dello spirito degli anni ’20.
Daniela Foresto è vivace e solare, capisci a colpo d’occhio che non può smettere un istante di pensare al suo lavoro, sarà forse perché è arrivata alla fotografia attraverso un percorso particolare ed è come se volesse sfruttare ogni attimo di tempo prezioso. Come lei stessa racconta, ha sempre avuto una macchina fotografica al collo, fin da ragazza e anche mentre svolgeva un’altra professione.
- Quando hai deciso di lasciare tutto e dedicarti completamente alla fotografia?
Ho sempre avuto dentro questa passione. Le dedicavo tutto il mio tempo libero. Avevo già cominciato a far diventare la fotografia un lavoro part-time quando un giorno - 7 anni fa - ho deciso di girare totalmente il mio “lato B” e cambiare radicalmente attività. Mi sono lasciata tutto alle spalle, senza remore e rimpianti. La mia è stata una scelta totale, una virata di 360° e sono molto contenta di averlo fatto. Quel giorno ho deciso di aprire il mio studio - in Piazza Gran Madre di Dio, nel cuore di Torino – e di fare la fotografa a tempo pieno.
- Che significato hanno per te la fotografia e l’arte del ritratto?
Ho sempre pensato d’essere nata con la macchina fotografica dentro al cervello. Ho sempre avuto un amore smisurato per le facce, per le storie, per le persone. Ho sempre visto in ogni volto dettagli che andavano necessariamente fotografati.
- Il ritratto è la forma più nobile per fermare il tempo, per raccontare una parte della storia della propria vita.
Per me non c’è modo migliore che vedersi appesi in un angolo della casa. Il ritratto è malinconia per il tempo che passa ma anche la bellezza di averlo fermato, rinchiuso.
- Il mestiere del fotografo si è molto evoluto nel corso del tempo ma tu, in controtendenza rispetto a un’attività che sembra scomparire, hai aperto la tua “bottega” nel cuore della città.
Anche in questo caso la scelta è stata dettata dalla pancia. Vivo da sempre nel quartiere di Borgo Po a Torino. Sono strade molto belle e dall’aria un po’ parigina, che conosco benissimo e che quindi sento mie. Ho aperto la mia galleria in Piazza Gran Madre di Dio, seguendo il mio istinto, e non ho sbagliato. Quando mi si presentò l’occasione di fare il grande salto, avevo molta paura perché si trattava non solo di cambiare vita ma era anche una scommessa economica, per quanto ponderata. Oggi la mia vetrina fa capire perfettamente il mio mestiere: ritrarre la vita. Ne sono molto orgogliosa perché ci sono tanti fotografi che non posseggono una propria sala pose mentre io ho sia quella sia la mia piccola galleria.
- Com’è nato il progetto dedicato a Tamara de Lempicka?
Mi piace molto sperimentare, andare a ‘grattare’ nel mondo dell’arte. Ho sempre amato lo stile pittorico scultoreo di Tamara de Lempicka. La sua pittura è iperrealismo scultoreo, modernismo estremo e purezza classica insieme. La sensualità e la femminilità di quegli anni l’ho voluta riprodurre con fotografie contemporanee di donne d’oggi. Il mio progetto fotografico fa sentire a ogni donna il fascino, il sottile gioco ironico e sensuale di farsi truccare, pettinare e vestire come nei magnifici anni ’20, come la Daisy del Grande Gatsby. Per la serie la serie Tamara de Lempicka in ogni donna ho fotografato una ventina di donne, tra cui l’attrice Isabella Ferrari. Sono tutte accomunate dal fatto di aver desiderato farsi ritrarre con lo stile di Tamara, su uno sfondo verde profondo. Si sono sottoposte a molte ore di “trucco e parrucco” per rendere prefetto ogni dettaglio, dall’acconciatura ai gioielli indossati.
- Che soggetti preferisci fotografare?
Non ho preferenze, io fotografo tutti, ma devo dire che i ritratti più desiderati sono quelli di famiglia, quindi probabilmente ne ho fatti di più rispetto al resto. In questo senso riprendo una vecchia passione borghese che non sente la concorrenza della diffusione della fotografia digitale. Ormai con qualsiasi smartphone è possibile scattare delle fotografie decenti nelle situazioni più canoniche o in qualsiasi altro momento della vita quotidiana. Per il ritratto è diverso. I miei clienti mi contattano per avere un’immagine unica, che rimarrà per sempre la testimonianza della loro vita famigliare, ad esempio con i figli. A questo tipo di immagini ho dedicato anche un libro, The portrait of a family. Le immagini sono rigorosamente in bianco e nero, secondo il mio stile. Mi piacerebbe che il “ritratto di famiglia” tornasse ad essere un oggetto di culto delle famiglie italiane, qualcosa di prezioso da mostrare e persino più amato dell’album del matrimonio.
- Esiste uno sguardo femminile nella fotografia?
Io penso che la parte femminile - l’essere una donna - sia un plus. Ritengo che un certo tipo di sensibilità sia soprattutto femminile. Almeno nel mio caso. Per il resto mi ispiro ai grandi ritrattisti - Avedon, Newton, Ritts, Mapplethorpe, Sieff, Demarchelier, Gastel - grandissimi fotografi dei quali sono sempre stata innamorata.
- Nel tuo portfolio si notano tanti volti conosciuti. Come sono di fronte all’obbiettivo?
A dire il vero, davanti all’obiettivo siamo tutti uguali. È proprio il fotografo a fare la differenza. Fare degli scatti a un attore potrebbe sembrare più semplice, invece non lo è. Come ritrattista devo prima smontare l’attore che vive in lui o in lei, per riuscire ad arrivare all’essenza della persona.
- Quale consiglio daresti a chi volesse intraprendere il tuo stesso mestiere?
L’unica vera componente significativa in qualsiasi mestiere è la passione. È l’unico ingrediente che non può mancare.
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